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Attualità

UOMO E NATURA: UN LEGAME MATERNO

Amici,

tra i tanti temi a cui la coscienza dell’uomo, nel proprio itinerarium storico e metatemporale si è affezionata, compare anche quello relativo al desiderio di conoscere la natura. La bramosia gnoseologica dell’uomo gode di una dimensione eclettica: difatti, l’essere umano ha trovato sempre motivazione nello spaziare tra le tematiche più divergenti ma al contempo dialettiche. Dal tema della vita a quello della morte, dall’amore all’odio, dall’amicizia all’invidia, dalla famiglia alla solitudine, dalla ricchezza a Dio. Tematiche, appunto, che proprio nell’opposizione trovano il loro perfetto completamento. L’argomento natura oggi appare essere tra quelli di più immediata esigenza, e, proprio per questo motivo, richiede che chi intenda approfondirlo o investigarlo abbia una profonda conoscenza e consapevolezza. Questi due ultimi fattori sono discriminanti per un’analisi obiettiva e lontana da manipolazioni ideologiche. Difatti, il tema natura è un tema che di per se stesso si presenta essere assai vulnerabile alle odierne dinamiche strumentali (tutte quelle realtà che terminano in –ismo-), le quali sono capaci di distorcere anche la tematica più nobile, camuffandone l’autentico fine didascalico. È giusto, secondo il parere di chi scrive, che la realtà natura sia sinallagmaticamente correlata alla sensibilità dell’uomo, dalla quale questi è doveroso che avverta quell’innato bisogno di preservarla e di restituirle la propria integrità. Ovviamente, chi scrive insiste sulla dimensione augurale per la quale quest’impeto protettivo possa essere esperito effettivamente così, giacché la cronaca istruisce tutti noi diversamente. Resta da dire, prima di passare alla trattazione argomentativa, che il tema natura è sì una tematica che chiede urgentemente di essere recuperata, ma di fianco ad essa, o addirittura prima, ci sono realtà che, considerata la loro portata strettamente personale, meritano de iure priorità. Un esame obiettivo della tematica natura richiede una riflessione duplice: la prima, a livello formale-codicistico; la seconda, a livello antropologico. L’aspetto formale-codicistico garantisce la tutela del paesaggio (art. 9 Costituzione – a livello nazionale) e legittima, suggerendolo, il saggio comportamento da assumere ed interiorizzare. Ovvero, chiarifica quell’eventualità per cui l’essere umano possa arrivare a percepire quello specifico bisogno come una realtà altra da sé, nemica, avversa alla propria persona e che quindi deve, per un mero principio di sopravvivenza, essere neutralizzata. Ecco, dunque, che si può giungere alla definizione di reato, nella fattispecie inquinamento ambientale, normata dall’art. 452 bis c.p. (a livello nazionale). L’aspetto antropologico prende invece le mosse proprio dalle notizie di cronaca, dalle quali è purtroppo evidente che insista un rapporto subordinato tra l’azione invaditrice dell’uomo e l’apparente disponibilità della natura a subire ciò. Difatti però sappiamo che così non è; in natura non vale il brocardo qui tacet, consentire videtur (chi tace, acconsente). La dimensione antropologica risulta essere quella più complessa, giacché derivi dalla poliedricità ontologica dell’uomo. Così, proprio da questa complessità strutturale nascono due paradossi: l’uno logico, e l’altro culturale. Logico perché non si può pensare di voler consapevolmente distruggere ciò di cui si è parte. L’uomo difatti è totalmente immerso nella natura, e con essa completa l’operazionalizzato concetto di sistema. Antropologico invece perché smentisce, pur non riuscendoci, la memoria storica del vissuto umano. Qualora questi due paradossi, logico ed antropologico, dovessero trovare mai una contestuale realizzazione, allora non si potrà che parlare dell’uomo come di un essere inspiegabilmente spregevole che, seppur eroicizzato in alcune trame mitiche, di fatto calpesta la sua stessa natura. Affinché si abbia chiara la dimensione antropologica che di fatto lega l’uomo alla natura (è, oltremodo, pleonastico sottolinearlo, giacché non può esserci antropologia all’infuori dell’uomo), a chi scrive preme avanzare un excursus storico-contenutistico, dal quale si evincerà che nelle epoche passate difficilmente si sarebbero potute riscontrare le odierne condotte illogiche. È doveroso partire dalla quella concezione classica che i greci nutrivano per le manifestazioni fenomeniche, estensive, ovvero per la natura. Non a caso è stato utilizzato l’attributo classico. Questo aggettivo deriva dal latino classicus, che tradotto acquisisce il significato di bello, che bisogna emulare. Dunque, per i nostri padri il bello andava emulato; non era consentito che fosse sciupato e degenerasse. Oggi, nelle nostre società è ancora così? È vero che noi emuliamo il bello? e che lo tramandiamo per non vederlo perito? Per noi è vero che il classico conserva intrinsecamente bellezza? Questi interrogativi così assai diretti e così poco speculativi (considerata l’etimologia) tastano il polso della nostra più autentica intenzione e motivano silentemente le nostre condotte quotidiane. Tutti saremmo concordi nell’affermare che ad ogni cittadino farebbe piacere che la propria società fosse definita bella (classica). E di fatto è così. Ma allora come si spiegano tutte quelle condotte agite contro la bellezza (non classiche), e che ciononostante, vengono addirittura emulate? Oggi si emula il non-bello? In alcuni casi forse sì. Non bisogna avvertire scomodità nel dirlo. Ci sono i fatti che parlano. Se invece decidiamo che le nostre società (in senso lato, la natura) debbano essere effettivamente belle (classiche), non potremmo non rifarci, per un principio di non contraddizione a livello etimologico-semantico, che al modello greco (classico) dove, più di ogni altra realtà, l’onesta deontologica per il fenomeno (in estensione, la natura) era espressa al massimo grado. Difatti, secondo l’esperienza greca la natura era da tutelare, da preservare. Gli eroi della mitologia dialogavano con la natura, essendo questa esperita attraverso categorie filo-antropomorfe. Pertanto, per i greci la natura era una realtà non già data, non fissa, ma dinamica, mutante, cinetica. Era una natura naturans, ovverosia una natura naturante, dove l’audace participio presente naturante sottende la capacità creatrice e generatrice della natura stessa. L’attività progettuale della natura non la si riscontra solamente in quelle dinamiche più scontate e cicliche che parcellizzano il fluire del tempo, ma anche nelle dimensioni più introspettive dell’uomo. Difatti, è risaputo che il poeta greco sublimasse la propria condizione mortale attraverso l’esperienza dell’ἐνθουσιασμός. Questo termine (enthusiasmòs) chiarifica l’esperienza che l’aedo era tenuto a vivere per poter divinamente comporre versi. La dimensione dell’ἐνθουσιασμός (significa Dio dentro. In italiano si rende con entusiasmo) la si ricercava lontano dal frastuono urbano, lontano dalle miserie materiali. Spesso erano le montagne o le campagne isolate i luoghi più adatti dove cercare il dialogo con la divinità. Era la natura la vera congiunzione tra la dimensione orizzontale (uomo) e la dimensione verticale (gli dei). La natura faceva sì che l’uomo (in questo caso, il poeta) scoprisse e sfruttasse quella propria dimensione più intima, oggi conosciuta come facoltà poietica (capacità di inventare). In passato, era chiarissima l’incidenza che la natura avesse nel formare e forgiare un individuo. Motivo per cui, nessuno osava disturbarla, modificarla, superarla, o addirittura, neutralizzarla. Tutta la cultura classica, fino a quella post-romantica, poggia su questa premessa. Volendo fare degli esempi pratici, non può non essere citato il poeta siracusano Teocrito (315 a.C. – 260 a.C.), il quale è considerato il padre della poesia bucolica, di quella poesia cioè che tratta specificatamente di campi, montagne, alberi, boschi, pastori ecc. Proprio quest’ultimi accompagnavano il loro tardo rientro dalle campagne con il προπεμπτικόν (propempticòn), ovverosia con un canto che nasceva dal piacere di osservare la natura oramai dormiente (tramonto). Anche Publio Virgilio Marone (70 a.C. – 19 a.C.), appartenente al mondo latino, ha pensato di far incominciare l’ecloga prima delle Bucoliche con il verso “[…] recubans sub tegmine fagi” (“sdraiato sotto l’ombra di un faggio”). San Francesco d’Assisi (1181 -1226) invece, nelle Laudes Creaturarum, loda Dio per il creato (natura). Ovviamente, occorre chiarire che il Santo d’Assisi non lodasse la natura perché Dio: Dio e la natura rimangono due realtà distinte e separate, che non si possono sovrapporre come invece erroneamente accade nella teoria panteista. San Francesco ringrazia Dio per ciò che Questi oblativamente ha donato all’uomo. Difatti, tutto il cantico conserva una struttura cletica (dal verbo greco καλέω, – invocare -), è una vera e propria preghiera. Avanzando ancora nell’arco temporale, giungiamo alla personalità di Ludwig van Beethoven (1770 – 1827), che nel 1807 compone la Sinfonia op. 68 in fa maggiore, meglio conosciuta come Pastorale. Questa Sinfonia è il risultato del fascino che Beethoven esperiva stando a contatto con la natura. Siamo già, secondo una classificazione musicologica, nella terza fase della vita del compositore; fase segnata da una sordità sempre più stigmatizzante. Beethoven amava trascorrere intere giornate in campagna, era solito fare lunghe passeggiate, durante le quali si compiaceva dell’assoluta bellezza della natura. Ovviamente, Beethoven non riusciva a percepire acusticamente la sublime armonia prodotta da questa, ma fruiva di essa attraverso lo sguardo e l’immaginazione (intuizione). Ciononostante, nella Sinfonia op. 68 il compositore tedesco è riuscito, attraverso espedienti tecnici orchestrali, ad emulare (classicus) quei suoni che purtroppo non avrebbe mai potuto ascoltare, riproducendoli tuttavia alla perfezione. Anche il pittore impressionista francese Claude-Oscar Monet (1840 – 1926) assunse la natura come elemento ispiratore di tutta la propria pittura. È risaputo, tra l’altro, che Monet dipingesse en plein air (all’aperto), avendo questi rigettato la pratica accademica di lavoro in atelier. Perché ho citato questi nomi? – e sono solamente alcuni -. Queste personalità cosa vogliono trasmetterci, cosa possono insegnarci? Forse che dobbiamo trascorrere più tempo al mare, in campagna, o in montagna? Non credo siano queste deduzioni intelligenti! Piuttosto, credo che dovremmo tutti ragionare intorno al fatto che queste personalità coltivassero le proprie inclinazioni (maturandole) attraverso quel naturale fascino parenetico proprio della natura. È difficile pensare che qualcuno possa ritenere logico il fatto che esista una qual certa nascosta eventualità per cui chi decide di imparare a scoprirsi giunga poi però a disprezzare quella luce che ha di fatto schiarito quel processo auto-investigativo. Forse è più facile rendere questo concetto attraverso la formula proverbiale “sputare nel piatto in cui si mangia”. Ecco, io credo che la sostanziale differenza tra il mondo classico (la tradizione) e quello contemporaneo risieda proprio in questo aspetto: un’infondata orizzontalizzazione di tutte quelle strutture naturalmente gerarchiche, che di fatto ha portato ad una perdita di quel tradizionale senso di riconoscenza e di rispetto. Come mai oggi si parla assai spesso di reato contro l’ambiente? Eppure siamo la generazione 2.0, 3.0, 4.0. O siamo forse la generazione dello zero Ø?. La risposta a quest’ultimo quesito la lascio partorire dalla coscienza di chi eventualmente vorrà leggere questo lavoro. Concludo qui, però, con una riflessione storicamente validata, secondo cui non risulta da fonte alcuna che nel passato l’uomo avesse quella brutale ferocia con cui tante volte oggi maltratta e danneggia la natura. Al contrario, la natura era il locus amoenus di più immediata portata, dove chiunque poteva ricercare una propria dimensione intimistica. Le personalità prima citate sono la naturale dimostrazione che un vir bonus (uomo onesto) non può che amare la propria madre, madre natura.

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