Image default
Filosofia

SI PUÒ DIRE: “SONO INNOCENTE”?

Cari lettori,

oggi desidero portare alla vostra attenzione la tematica relativa al quesito: si può dire sono innocente”? Questo interrogativo implica una doppia riflessione e produce, come vedremo, due ricadute totalmente antitetiche. La prima disamina concerne la mera sfera linguistica del quesito, la seconda invece quella logica. Essere innocente è un’espressione che si utilizza assai frequentemente oggi giorno. La si adopera, infatti, in contesti informali, come tra amici o in famiglia, ma anche in contesti più impegnativi, come tribunali o sedi di lavoro. Sono innocente, pertanto, è una costruzione che, da un punto di vista linguistico-grammaticale, può essere accettata. È un’espressione, cioè, sintatticamente valida e completa, che non necessita di intervento alcuno. Questa univocità evidentemente presente nell’ambito grammaticale del costrutto sono innocente, purtroppo non la si ritrova anche in quello logico, dove contrariamente il quadro generale si complica e dove specifiche implicazioni causative pretendono di essere affrontate. Per chiarire la difficoltà logica che si cela dietro l’espressione sono innocente, mi rivolgo al filosofo danese Søren Kierkegaard il quale, nella sua opera Il concetto dell’angoscia (1844), analizza proprio il paradosso di questo costrutto. Ovviamente, un paradosso logico, non grammaticale. Kierkegaard ritiene che chi definisce l’innocenza ne sia già fuori. Difatti, dirsi innocente significa assumersi la responsabilità di attribuirsi uno specifico predicato, la cui definizione semantica di fatto deve essere stata già assorbita. Il filosofo danese ritiene che solo chi ha perso l’innocenza sa cosa sia.

 

L’innocenza è quello stato in cui l’uomo ignora il suo stesso stato ontologico (cioè l’innocenza). L’innocenza è ignoranza, è inconsapevolezza, è irresponsabilità. L’innocente non sa di essere innocente. Per Kierkegaard, l’innocenza è quella dimensione che pone l’uomo di fronte a quelle infinite possibilità di scelta che di fatto sostanziano la sua stessa libertà. L’uomo è innocente fintanto che non renda atto anche una sola delle sue infinite possibilità. Per cui, ogni azione volitiva rompe lo stato d’innocenza, giacché la volontà conduce l’uomo ad essere consapevole, responsabile, cioè capace di prendere decisioni. È con l’atto volitivo, cioè con quell’atto che trasforma una potenza in atto, che l’uomo perde la sua innocenza. Con la volontà l’uomo si pone nell’atteggiamento di poter decidere di agire condotte buone o cattive. Kierkegaard, a tal riguardo, prende in prestito la figura di Adamo il quale, in un primo momento è innocente, cioè inconsapevole. Ma interiorizzata una specifica volontà, Adamo perde quella sua innocenza prelapsaria, decidendo così di fatto di agire una condotta peccaminosa. Ciò che rompe lo stato di innocenza non è la qualità dell’azione agita (azione buona o azione cattiva), ma l’azione stessa. Nel momento in cui l’uomo decide per qualcosa, questi non è più libero, quindi non è più innocente. L’innocenza più completa l’uomo la esperisce nel momento in cui si compiace delle sue stesse infinite possibilità, le quali però devono rimanere tali (cioè semplicemente possibilità) per potergli garantire quel senso di innocente appagamento. Non può esistere un uomo pratico e contestualmente innocente. Di fianco all’Adamo di Kierkegaard, io propongo la figura del neonato, dell’infante. L’umanità intera è solitamente concorde nel ritenere i bambini innocenti. Il neonato è effettivamente innocente, ma lui non sa di esserlo. Il neonato ignora la sua innocenza. Siamo noi che dal di fuori gli attribuiamo giustamente questo predicato. Dunque, l’infante, ammettendo pure che sia in grado di parlare, non può dirsi innocente, perché non lo sa e non lo può sapere. Se dovesse mai poterlo dire, non sarebbe più innocente, giacché si è posto in una condizione dalla quale potersi osservare e definirsi. L’innocenza non ammette uno sguardo critico su se stessi. Non esiste, infatti, un’ignoranza chiarificatrice, esplicativa, svelatrice di significati, predicati e contenuti. Il bambino, maturando, potrà solo dire di essere stato innocente. Così, l’espressione sono innocente, da un punto di vista logico, non è accettabile, almeno che non si voglia apportare una modifica al tempo verbale.

Ti potrebbero interessare:

SÌ PATRIARCATO, no satana. Femminicidio: pura invenzione.

Andrea di Napoli

UOMO E ANIMA – OCCHIO ALL’INGANNO!

Andrea di Napoli

Perché “NON ABBANDONARCI ALLA TENTAZIONE” è errato

Andrea di Napoli