Amici,
mi è stata attenzionata diverse volte questa tematica, chiedendomi nello specifico se una confessione religiosa sia da ritenersi elemento inibente delle libertà personali, o se invece sia da interiorizzare come esigenza ontologica dell’uomo. In questo articolo, cercherò di rispondere a questi quesiti, tralasciando però la mia personale opinione e appoggiandomi invece su quello che la storia e l’antropologia inconfutabilmente insegnano. È sotto gli occhi tutti che le società moderne siano garantite da ordinamenti propriamente detti laici. Ovvero, da strutture ed organi giuridici che prendono le dovute distanze rispetto a lasciti normativamente dogmatici. Oggi è comune l’espressione “lo Stato è laico, la Costituzione è laica”. La validità grammaticale di questa espressione può essere accompagnata da una altrettanto validità antropologica? Voglio dire che, se sotto un profilo meramente linguistico è possibile dire “Lo Stato è laico, la Costituzione è laica”, si è sicuri che lo si possa ugualmente affermare anche sotto un profilo storico-culturale, dove l’unica preoccupazione però non è già la sintassi, ma l’onestà di non auto-contraddirsi? Cerchiamo di entrare nel merito della questione. Considerando il passato, il mondo classico (la genesi della nostra storia), risulta che a quei tempi andasse di moda credere in entità (divinità) che superassero i comuni limiti mortali umani e che guidassero a loro piacimento le sorti di chiunque. Dunque, una buona parte della storia umana si è mossa in quella direzione, costruendo basi sociali e strutture morali. Procedendo temporalmente, giungiamo agli albori del cristianesimo che, inspiegabilmente si diffonde proprio nell’ambiente più pagano del tempo, ovvero nell’impero romano. Inspiegabilmente perché i romani accettarono di abbandonare la propria dottrina politeista (gli dei) per abbracciarne una monoteista (Gesù Cristo) e che si presentava essere sostanzialmente antitetica a quella d’origine. I latini sono noti per il loro raziocinio procedurale e per la loro capacità critica di affrontare gli eventi. Eppure, se questo trasformismo confessionale è avvenuto, deve essersi verificato qualcosa di straordinario, qualcosa cioè che ha avuto l’efficacia di superare l’ordinario. Avanzando ancora nella storia, ecco che giungiamo alla Rivoluzione francese. Ma perché proprio la Rivoluzione francese? Perché essa ha avuto l’apodittica pretesa di ritenere obsolescenti tutte quelle altre realtà che fino al quel momento avevano gerarchicamente strutturato ogni aspetto della vita. La Rivoluzione francese ha creduto che la prassi della ragione potesse superare ogni atto dogmaticamente speculativo. Ma nei fatti, la ragione illuminista non ha qualitativamente mutato la sostanza impositiva (cioè non positiva) della fede, anzi ad essa si è paradossalmente sostituita; la dea ragione, per l’appunto. È nei disordinati paradossi di questa rivoluzione (i disordini sono propri di tutte le rivoluzioni) che si trovano le cause di ciò che oggi viene ideologicamente propagandato. Una propaganda che, come adesso vedremo, tradisce la memoria storica e culturale dell’uomo, oltre che contraddire quella garanzia che ci consente di pensarci come popolo. La definizione di popolo, difatti, è la prima paradossalmente a cadere, dopo il corto circuito rivoluzionario del 1789. Paradossalmente perché la consapevolezza di potersi definire popolo era stata acquisita proprio grazie a quella parte sana (le operazionalizzazioni post-umaniste) della Rivoluzione francese, la quale aveva avuto il merito di aver reso l’uomo consapevole di un proprio status. È proprio per merito della Rivoluzione francese prima e dell’impeto romantico dopo che le masse iniziarono a concepirsi popolo. Il popolo è l’evoluzione auto-coscienziosa della massa, la quale invece è tale perché smembrata dei suoi elementi ontologicamente caratterizzanti. Il popolo, o meglio lo spirito di popolo nasce da una perfetta e completa commistione di elementi necessari: grammatica, letteratura, lingua, tradizione, storia e religione. Queste realtà sono tra loro interdipendenti e collaborano sinallagmaticamente al concetto di popolo. Senza anche uno solo di questi elementi non può esserci popolo, non può esserci cioè consapevolezza di se stessi. Avremmo solamente un’idea confusa di una massa a sua volta incosciente. Ribadisco, tutte queste realtà hanno un carattere identitario e ci consentono di poterci riconoscere. Sono la nostra carta d’identità! Oggi, tra l’altro, c’è una frenesia nel farsi volere riconoscere. Oggi vogliamo farci riconoscere! Ci facciamo personalizzare le cover degli smartphone, le scarpe, le borse, siamo attenti ai dettagli, agli accessori, siamo disposti a pagare diverse migliaia di euro in più pur di vedere la nostra auto verniciata della tinta più estroversa. Invece, sugli aspetti che contano, cioè sui nostri valori tradizionali facciamo i conigli, assumiamo una condotta vile, per cui decidiamo di tollerale quell’eventuale fastidio che potrebbe nascerci nel vedere la nostra storia e la nostra cultura annichilite e tradite. È chiaro che siamo di fronte ad una schizofrenia comportamentale o, peggio ancora, di fronte ad un disimpegno morale. Il corto circuito, di cui ho iniziato a dire prima, risiede nel significato assurdo e illegittimo che è stato dato al termine laico. Oggi laico indica una realtà asettica di principi confessionali. Ma laico deriva dal sostantivo greco λαός (laòs), che significa solo e soltanto popolo. Dunque, l’espressione “Lo Stato è laico, la Costituzione è laica” significa di fatto “Lo Stato è del popolo, la Costituzione è del popolo”. Il termine laico, dunque, non fa a cazzotti con la fede religiosa, anzi conserva dentro di sé il necessario rimando trascendente. Il popolo è popolo, cioè propriamente laico, se rispetta uno di quei suoi caratteri identitari: la fede. Non esiste popolo senza religione, così come non esiste Nazione senza tradizioni. Popolo sta a Nazione come massa sta a Stato. Il concetto di Nazione altro non è che la sublimazione della mera realtà dello Stato geograficamente inteso. Nasce a questo punto spontanea la seguente domanda: se laico significa popolo, come mai si è cercato di privare il popolo solo di uno specifico elemento identitario, cioè la fede, e non di altri? Perché con laico non si intende uno Stato che neghi la letteratura, o la lingua? Perché questo immotivato ed infondato accanimento verso la religione cattolica, la quale ci consente, insieme agli altri elementi, di definirci popolo italiano? Vista l’unidirezionalità della dinamica delle cose, è difficile pensare che si sia trattato di un mero caso. Piuttosto, credo si tratti di una condotta specifica, ben studiata, avente come obiettivo quello di deindividualizzare i popoli e di sdoganare un ideologismo sempre più incontrollato, che mira capziosamente ad includere l’Altro calpestando il Noi. Non può esserci autentica inclusione senza una seria identità ad intra. La Rivoluzione francese non si è preoccupata di eliminare in toto l’elemento religioso, ma esclusivamente di rendere avversi gli insegnamenti della dottrina cristiana (cattolica). Motivo per cui, è più opportuno esprimersi in termini di ἀντίθεος (contro Dio) che ἄθεος (senza Dio). I moti rivoluzionari del 1789 hanno cagionato una immotivata scristianizzazione, per cui oggi gente che si professa atea coltiva ipocritamente discipline come lo yoga o si reca assiduamente in Cina, India, Tibet, sperando di riuscire a cogliere quella stessa trascendenza che la Rivoluzione francese ha però negato in Occidente. Dunque, Gesù Cristo no, Buddha sì. Se a Liberté, Égalité, Fraternité volutamente si attribuisce una concezione meticciata dell’Io (depersonalizzazione), il sottoscritto, per amor proprio, si dissocia.