Cari amici lettori,
oggi intendo soffermarmi su una tematica che chiede sempre più urgentemente di essere affrontata e chiarita. Quella di cui voglio parlare in questo articolo, è una tematica che si interseca naturalmente con le attuali preoccupazioni soggettive, le quali da diverso tempo sono tutte unicamente propese affinché l’uomo contemporaneo non avverta la propria effettiva solitudine esistenziale (intesa come sana autarchia, cioè capacità di bastare a se stessi) e giunga così a ritenersi padrone di tutti quei luoghi in cui però falsamente decide di strutturare la propria identità e le proprie relazioni. L’angoscia capitale dell’uomo d’oggi è quella di sentirsi potenzialmente trascurato, abbandonato, dimenticato, ignorato, solo. Per cui, l’essere umano è disordinatamente portato a trascorrere le proprie giornate in realtà nelle quali una squallida confusione pretende di neutralizzare quel senso di solitudine che, non nasce già però da una mera mancanza di relazioni, ma più che altro da una metodica inautentica attraverso cui si formalizza l’idea di “relazione”. Per muovere quest’analisi, ricorrerò al pensiero dell’antropologo Marc Augé, il quale ha studiato la controversia paradossale di questi fenomeni, arrivando così a delineare delle precise definizioni ermeneutiche. Per Augè, il nonluogo è quello spazio dell’anonimato frequentato da individui simili ma soli.
Ci può essere solitudine in una realtà frequentata?
Nonluoghi, per l’antropologo francese, sono le autostrade, le stazioni, gli aeroporti, le sale d’attesa, le strutture per il tempo libero, i viadotti, i supermercati, le grandi catene alberghiere. Nel nonluogo si esperisce l’ossimoro frequentato/solo. Il nonluogo è de facto quella realtà nella quale un individuo si illude di poter trovare la propria dimensione identitaria. Dunque, è possibile avvertire ugualmente solitudine, pur interagendo e condividendo vissuti, emozioni, spazi. Augé ritiene che una sovrabbondanza di avvenimenti e di tecnica, ed un eccesso di spazi e di tempo, cagionino un’estetica della distanza, un gusto cioè che silentemente partorisce una subdola solitudine, la quale tende a zittire ogni sensazione anticipatoria di un’imminente rottura socio-relazionale. L’accelerazione della storia corrisponde infatti a una moltiplicazione di avvenimenti il più delle volte non previsti da economisti, storici o sociologi. È la sovrabbondanza di avvenimenti a costituire un problema. La sovrabbondanza di avvenimenti corrisponde alla situazione di surmodernità, ovvero di eccesso. L’antropologo organizza questa potenziale ricaduta, appunto, nella sua teoria della surmodernità (concetto di surmodernità – il sur francese non si traduce con l’equivalente italiano sovra), dove l’eccesso diviene causa di spaesamento, di perdita d’identità, diviene appunto nonluogo. Il nonluogo empirico (così definito da Augé) è quella realtà antitetica al luogo antropologico. Nel nonluogo, ogni legame sociale non può più essere rintracciato; nel luogo antropologico, si conservano invece i legami sociali e storici. Augé sostiene che “se i luoghi antropologici creano un sociale organico, i nonluoghi creano una contrattualità solitaria”. La surmodernità, insomma, impone alle coscienze individuali esperienze e prove del tutto nuove di solitudine, direttamente legate all’apparizione ed alla proliferazione di nonluoghi. “Lo spazio del nonluogo non crea né identità singola, né relazione, ma solitudine e similitudine”.