Cari amici lettori,
oggi intendo approfondire una tematica assai nobile ed a me altrettanto assai cara: la tragedia greca, ovvero la forma prototipica di teatro. Il teatro, tragico e comico, è l’espressione più caratteristica della cultura ateniese del secolo V a.C. e al tempo stesso un genere letterario per il quale non esistono eguali in nessuna civiltà precedente ai Greci. Nella galassia delle forme culturali che l’antichità ha trasmesso alle epoche successive, dunque, il teatro costituisce un modello fondamentale con cui tutta la tradizione occidentale ha dovuto inevitabilmente fare i conti. Da certi punti di vista, la tragedia si colloca all’interno della tradizione poetica precedente, sia epica che lirica, non solo perché ne deriva alcuni strumenti espressivi, ma soprattutto perché sfrutta lo stesso materiale della poesia epica, vale a dire il mito. Tuttavia, rispetto all’epica, la tragedia esperisce un’inaspettata novità: i personaggi si staccano dalla trama del racconto per agire autonomamente sulla scena, mostrandosi così al pubblico come distinte individualità, dotate ciascuna di un proprio profilo psicologico. L’epica, difatti, è una narrazione (ἔπος, “parola”), il teatro invece è un’azione (δρᾶμα, da δράω, “agire”). La tragedia, dunque, diviene uno spettacolo assai complesso: il coro canta e danza, l’attore recita e declama, il testo è accompagnato dalla musica, l’apparato scenico (macchine, maschere, costumi, scenografie) acquisisce un ruolo determinante. Il passaggio dall’epica (racconto) alla tragedia (azione) cagiona una riduzione delle possibilità espressive, per cui la tragedia stessa, diversamente dalla poesia, è obbligata a rispettare tre fattori, noti anche come tre unità aristoteliche: unità d’azione, di tempo e di luogo. Aristotele, infatti, nella sua Poetica riferisce che: la tragedia debba ritagliare un solo momento del mito (unità d’azione); il fatto debba svilupparsi in un’unica giornata, dall’alba al tramonto (unità di tempo); il fatto debba svolgersi in un unico luogo (unità di luogo).
Questo limite espressivo è però compensato da un elemento intrinseco della tragedia stessa: l’azione drammatica permette la possibilità di scavare nei personaggi, nella loro psicologia, nelle loro motivazioni, nelle loro emozioni, nei loro affetti, dando così in sostanza profondità introspettiva a quelle piatte figure del mito. In Grecia, dunque, l’esperienza teatrale diventa un’occasione per una sorta di psicodramma collettivo, in cui è coinvolta tutta la città. Nell’Atene classica, il teatro è inteso come “liturgia”, ovvero come un pubblico servizio, fondamentale nella vita cittadina. Inoltre, la tragedia conserva anche i caratteri di un’esperienza rituale, dato che si svolge all’interno di una festa religiosa in onore di Dioniso. Il teatro è così da ritenersi un fenomeno di massa, un fenomeno cioè la cui funzione è quella di indurre alla riflessione circa le idee, i problemi e in generale la vita civile e culturale dell’Atene democratica. Lo spettacolo tragico nella Grecia classica è un’esperienza capace di coinvolgere l’intera popolazione in una riflessione collettiva sulla cultura della πόλις (città). La strutturazione formale della tragedia poggia su tre elementi cardini: il dolore, la scelta, il destino. La tragedia mette sulla scena la sofferenza (πάθος) di un eroe, la cui sorte lo conduce a misurarsi con le prove della vita. È tipico dell’intreccio tragico, inoltre, mostrare l’eroe davanti a due possibilità, entrambe dolorose: la decisione, qualunque essa sia, non lo porta alla salvezza, bensì a nuove sofferenze. La tragedia così propone contestualmente il tema della libertà dell’uomo e quello della sua limitatezza. Infine, i personaggi del mito tragico sono sovradeterminati, nel senso che, seppur liberi di scegliere e di agire, patiscono comunque la presenza di forze esterne, con cui si scontrano: gli dei, il fato.